22/07/2020
Tornano oggi #LeIntervisteDellaStag(g)ista*, che questa volta ci portano nel mondo dell’informatica e della programmazione.
Conosciamo Giuseppe De Rosa, tra i fondatori di kapusons e responsabile UX, più noto come sviluppo front-end.
Ciao Giuseppe, sono contenta di poter conoscere meglio anche te.
So benissimo che sei un appassionato di bricolage, ma almeno durante l’intervista potresti spegnere il trapano che non sento bene?
Fatto!
Grazie. Prima di partire con le 200 domande che ho preparato per te, ti lascio presentare.
Va bene. Sono Giuseppe De Rosa, uno dei due “tecnici” soci fondatori di kapusons (gli altri due sono “comunicatori”, ndr). Nel dettaglio, sono l’UX Manager della società, la figura che cerca di tradurre i bisogni dell’azienda in qualcosa di usabile da parte dell’utente, occupandosi in primo luogo di progettare interfacce che, come dico sempre a mia madre che è tecnologica come un tavolino ikea, “quello che si vede di un sito, un software o un’app e come funziona”.
Ora vuoi sapere cosa faccio realmente? Faccio il coltellino svizzero.
Il coltellino svizzero? Ma che vuol dire?
Beh, vuol dire che faccio un po’ di tutto. Se c’è bisogno di occuparmi del cliente, a livello di gestione condita di consulenza tecnica, sto sul cliente; se c’è bisogno di progettare architetturalmente una soluzione informatica, faccio quello; se c’è bisogno di occuparsi della parte amministrativa, me ne occupo; se c’è bisogno di occuparsi di grafica, do un supporto a Lorenzo, l’art director, e se c’è bisogno del mio lavoro primario che dovrebbe essere sviluppare… addirittura sviluppo! Insomma, costruisco cose: sistemi informatici, relazioni tra persone e, soprattutto, mi piace che in ufficio funzioni tutto, dai server al Geberit!
Bene, ora direi che possiamo entrare nel merito dell’intervista. Ti premetto che oggi, e sottolineo oggi, sei autorizzato a parlare quanto vuoi e a deliziarci con le tue digressioni che partono dalla creazione del cosmo.
Preparati allora, sarà una lunga notte!
Sono pronta. Parto con la prima: dal momento che il tuo percorso di studi non è stato del tutto attinente a quello che hai poi scelto di fare nella vita, me lo racconteresti?
Il mio percorso è stato stranissimo: ho iniziato facendo il liceo scientifico con la sperimentazione informatica, quindi già si intravedeva qualcosa in lontananza.
Sono stato sempre affascinato dalla meccanica delle cose, non c’è un giocattolo della mia infanzia che io non abbia smontato in ogni pezzo.
Prima di imparare a parlare ho imparato a usare il cacciavite e il regalo che chiesi ai miei nonni per l’esame di terza media fu trapano un avvitatore Black&Decker. Il fatto di essere una persona eclettica, con più interessi, l’ho ereditato dalla mia famiglia. Mio nonno, per esempio, era muratore ma allo stesso tempo dipingeva, l’altro nonno era contadino, ma amava fare il meccanico. Sono stati i miei maestri… soprattutto di curiosità. “Impara l’arte e mettila da parte” era un comandamento più che un proverbio.
Mio padre scoprì il mio eclettismo e siccome lui con le mani è negato in tutto, decise di assecondarlo: potevo passare il mio pomeriggio dal fabbro del paese, potevo stare davanti al Commodore a copiare listati in Basic o giocare con il microscopio e a lui andava bene: mi lasciava libero di scoprire.
Pure troppo in realtà come quando ho scoperto la differenza tra corrente alternata e continua posizionando due fili collegati alla 220v di una presa sui binari del mio trenino 12v LIMA facendolo partire con una lunga fiammata in stile DeLorean di Ritorno al futuro… ma non c’è stato nessun salto temporale, solo un salto dalla finestra con conseguenti urla di mia madre!
Dati i tanti interessi e le diverse attitudini, come sei riuscito a circoscriverli e a scegliere un indirizzo universitario?
Beh… se ti dicessi che è stato facile ti direi una cazzata, quindi ti dico la verità: è stato un DISASTRO. Per prima cosa provai il test alla facoltà di Odontoiatria a Trieste, perché avevo uno zio odontotecnico e poi mi dissi perché no? Fortunatamente non superai il test. Allora decisi di andare a L’Aquila a fare Ingegneria, perché fiducioso che fosse una facoltà estremamente pratica, invece, mio malgrado, scoprii che c’era molta teoria matematica e gli ingressi ai laboratori piazzati al quinto anno erano troppo per me! SCAPPAI!
Mi trasferii alla facoltà di economia tanto, mi dissi, qualsiasi cosa farò avrò sempre bisogno di soldi (diciamo che i mille interessi hanno anche mille costi differenti!). La frequentai per due anni, fino a che non mi scontrai con l’esame di Microeconomia e, nello specifico, con l’argomento perno di tutta l’economia: IL VINCOLO DI BILANCIO DEL CONSUMATORE.
La teoria prevede che quest’ultimo si muova, inesorabilmente, tra il “PANIERE A” e il “PANIERE B” a seconda di quello che può permettersi ma che, di base, sia sempre predisposto a consumare. Allora mi chiesi: «E se io non volessi consumare?», ma a detta del prof. non sembrava un’opzione possibile. Non lo accettai e mollai la facoltà!
Immagino che a questo punto tu ti sia avvicinato alla facoltà di Geografia, come mi pare di averti sentito dire. Mi sorge spontanea una domanda: come sei passato dallo studiare la tettonica delle placche a fare l'informatico?
Boh, ancora me lo chiedo anche io. Fu l’ennesimo colpo di fulmine! Dopo L’Aquila mi trasferii a Roma e mi iscrissi per l’appunto alla facoltà di Geografia. Studiai argomenti interessantissimi per due anni, ma la scoperta di Internet, fatta qualche anno prima in occasione della preparazione della tesi di laurea di mia sorella, mi folgorò: avevo iniziato a navigare in un territorio inesplorato.
All’epoca ovviamente era tutto diverso, i computer non erano potenti e non offrivano un’esperienza utente piacevole. Erano le persone che dovevano adattarsi a quello che il computer faceva, non il computer che si adattava alle esigenze delle persone. Steve Jobs, però, stava cercando di creare dei computer con lo slogan «Think different», un modo differente di approcciarsi alle macchine.
Come e quando è iniziata quindi la tua carriera vera e propria da informatico?
Un giorno mia madre mi disse «Perché non trovi un lavoro nel mondo dell’INTERNET», non sapendo neanche cosa fosse, ma capendo che era il futuro di tutti e, soprattutto, che non essendo propriamente la madre di Mario Tozzi, era ora che mi trovassi qualcosa da fare sul serio!!!
Andai a fare il Net Surfer a Lazioimprese: il mio compito era cercare i recapiti online delle imprese del Lazio per un portale. Facevo ricerche terribili, su siti fatti per la maggior parte con temi di Frontpage (chi è informatico sa quali orrori si celavano dietro questo prodotto).
Durai un mese: mi resi conto che avrei voluto fare qualcosa per migliorare questi siti, per dargli una svecchiata. Allora iniziai a cercare un corso da web designer. Avrei dovuto fare un corso di 6 mesi, ma dopo 15-20 giorni il mio insegnante dell’epoca mi consigliò una società informatica era alla ricerca di un programmatore junior. Mi proposi e venni preso in prova. Proprio in quel contesto conobbi Daniele*, allora CTO a capo del team di sviluppo. Daniele, pur sapendo che non avevo fatto studi o scuole, credette molto in me. La prima cosa che fece fu farmi vedere un’immagine di un circuito stampato e mi chiese di creare un’animazione che rendesse l’effetto della corrente attraverso quel circuito: se mi avesse chiesto di imparare a memoria mezzo Corano l’avrei presa sicuramente meglio! Per tre giorni ci sbattei la testa senza interruzione e senza cavarne, come si dice, un ragno dal buco. Quest’aspetto complesso e masochistico del lavoro di informatico fu la seconda importante folgorazione!
Mosso da compassione, Daniele mi spiegò come fare. In effetti le “lucine” del circuito non erano nient’altro che GIF animate, oggi usate per i meme, che all’epoca si utilizzavano per permettere alle immagini statiche di muoversi: andavano posizionate sopra l’immagine del circuito e il gioco era fatto. E che gioco! Oggi siamo abituati a vedere la realtà su uno schermo, ultimamente tendiamo anche ad “aumentarla”. Allora realizzare una cosa del genere per me era semplicemente magia.
Poi Daniele mi rivelò una cosa fondamentale: i siti internet non erano delle pagine statiche, dei documenti messi online collegati da link, ma potevano essere generati da una sorta di cervello, di intelligenza (che si chiama, per l’appunto, business logic), un meccanismo software che prende i dati da una fonte, solitamente un database e li inserisce dinamicamente in una pagina appunto “generata”. Mi ripeteva «Se tu vuoi creare un sito fatto di 50 pagine tutte diverse tra loro, è sufficiente che crei una pagina e poi, grazie a del codice, unisci il contenuto alla struttura della pagina: questo è un sito dinamico»: la mia espressione in quel momento dev’essere stata la stessa di Adamo nel giardino dell’Eden. Mi stava banalmente insegnando l’ASP (Active Server Pages), la tecnologia Microsoft che oggi è diventata l’ASP.NET.
All’epoca utilizzavo anche un software di un’azienda americana, la Macromedia, il cui claim era «What the web can be», la quale s’inventò FLASH, un programma fatto per creare interfacce animate, e quelle che loro battezzarono come RIA (Rich Internet Applications), delle interfacce semplici da utilizzare, utili e appaganti per l’utente: il discrimine all’epoca era proprio questo, creare dei siti belli e facili da utilizzare, un utente felice è un utente che torna sul tuo sito. Io testavo i miei prodotti su mio papà: se fosse stato in grado di navigarli, allora avrei potuto dire che era un sito riuscito.
Quali erano gli strumenti che prediligevi? Quando hai iniziato ad usare HTML e Java Script?
Daniele, nonostante sviluppasse in Microsoft, non amava le tecnologie proprietarie. Mi spiegò che tutto quello che facevo con Macromedia Flash l’avrei potuto fare con l’HTML e con il Javascript.
Nel web esisteva il W3C - Web 3 Consortium - un organismo super partes per standardizzare il codice prodotto, cioè quello che compone le pagine web. Daniele ci teneva che utilizzassi l’HTML, ma che lo utilizzassi in modo standard e sempre dichiarandone lo schema: era il primo passo per far si che i siti fossero visibili allo stesso modo su tutti i browser, cosa non facile all’epoca.
Per dimostrarmi le potenzialità di Javascript, Daniele mi aiutò a sviluppare un’idea che proposi quasi per gioco ma che lui accolse subito quale grande appassionato di videogiochi era: l’ascensore. Nacque tutto da una mia domanda: «perché, quando scrollo la pagina, il menù resta in alto e sparisce? Perché non facciamo un ascensore? In modo che il menù possa seguire i movimenti della pagina». Daniele prese alla lettera la mia proposta: dividemmo la pagina a metà, a sinistra il contenuto e a destra il menù, com’era prassi in quel periodo. Daniele fece in modo che ad ogni scroll del contenuto della pagina, sulla colonna di destra, si spostasse di pari passo il menu del sito. Arrivava dall’alto oppure dal basso come un vero e proprio ascensore e aveva anche un effetto decelerazione!
Galeotto fu l’incontro con Daniele, mi pare di capire. Ma come è nata, invece, l’idea di fondare una società?
Io e Daniele eravamo molto complementari, perché naturalmente divisi in back end e front end. Questa fu una sua intuizione dei primi tempi. Oggi è normale ma all’epoca andavano molto di più i team fullstack. Un giorno incontrai Ugo* e iniziammo a parlare di siti internet, realizzati in maniera differente, in maniera più fruibile, chiara e leggibile per l’utente. Tecnologicamente semplici ma migliori, evitando cose ba-rocche, esagerate, che chi è alle prime armi tende a fare perché più facili (sì, come nell’arte, anche nell’UX il difficile è togliere non aggiungere).
Anche se, se devo dirla tutta, il primo lavoro che Ugo mi propose nel lontano 2003 non fu proprio all’insegna del detto “Less is more”. Si trattava di un sito per un albergo in Kenya: c’era l’Africa, c’era il sole… Cosa potevamo fare se non far comparire da uno sfondo nero un leone a ritmo di tamburi? E così facemmo in modo che tutto partisse dai due occhi del mammifero, che si aprivano lentamente sullo schermo e piano piano si andava formando la sua testa. Ma non era abbastanza; questo muso rotondo, infatti, diventava a mano a mano un sole… e ogni raggio che partiva dal sole corrispondeva ad una voce di menù: una cosa terribile a ripensarci oggi. Impiegammo una settimana per realizzarlo, chiusi nella camera di Ugo, ma il cliente rimase stupefatto! Fu il primo lavoro di kapusons, dove, per la prima volta, si incontravano tecnologia, comunicazione, aspetti di webmarketing, grafica bella, ecc. Ma soprattutto ci eravamo collaudati come squadra: Ugo era il contatto primario con il cliente e curava gli aspetti di comunicazione, Lorenzo* era la grafica e la parte artistica ma con una formazione da comunicatore era già art e copy assieme, Daniele era il tecnico di backend (il sito aveva un listino prezzi aggiornabile via web dal cliente in autonomia) e io ero il collante per assemblare tutta la squadra perché allora sviluppavo con Daniele, spiegavo a Lorenzo quali strumenti utilizzare per produrre la grafica e parlavo ore e ore di business con Ugo.
A proposito di Lorenzo, mi incuriosirebbe sapere come ti rapportavi con lui dal punto di vista professionale. Me lo racconti?
Certo. Quando iniziammo a lavorare assieme Lorenzo era già un artista, vocazione che ha avuto fin da piccolo e che ha portato avanti nel tempo. Kapusons nasce come divisa in due poli opposti e complementari: due sviluppatori (io e Daniele) e due comunicatori (Ugo e Lorenzo). Ma, una volta avviata la nostra attività, è stato normale che la naturale evoluzione di Lorenzo fosse non solo quella di comunicatore, ma anche di grafico e artista, perché più votato all’estetica e all’arte. Infatti, durante i lavori iniziali per ristrutturare la sede, noi ci caricavamo il cemento, costruivamo i tavoli, montavamo e smontavamo mobili, computer, server... Lorenzo dipingeva le serrande, cercando di crearci sopra una grafica interessante!
Appena abbiamo aperto io avevo un pc più simile a quello di Lorenzo, come dimensioni del monitor, come potenza di calcolo ecc., ma lo usavo in modo più simile a Daniele, perché ci sviluppavo sopra. Ero quindi “una via di mezzo” tra loro due. Cercavo di rendere le grafiche di Lorenzo adatte ai siti web e gli spiegavo, tecnicamente, come utilizzare alcuni strumenti su cui lui metteva sopra la parte creativa.
Per anni abbiamo portato avanti questa ricerca in parallelo di ciò che era bello: lui lo disegnava e io poi lo facevo funzionare. Eravamo tutti noi, e lo siamo ancora, una catena di montaggio.
Quando si è concretizzata l’attenzione verso l’esperienza utente?
Il nostro punto di forza, forse, è stato proprio avere una forte sensibilità verso lo UX Design, a cui, all’epoca, puntavano solo in pochi illuminati. Come sempre il marketing la faceva fa padrone e c’erano siti orribili giudicati ottimamente perché scalavano le classifiche dei motori di ricerca. Nel 2003, una volta aperta la nostra società, iniziammo a sviluppare il nostro sito e il nostro CMS (Content Management System) e l’attenzione a quello che l’utente vede, all’esperienza che fa sul sito nacque in quel momento. Ugo studiava comunicazione e finalmente mise alla base della pratica, mia e di Daniele, una teoria, uno studio. Ma soprattutto decidemmo di non accontentarci: eravamo sì piccoli e alle prime armi, ma la no-stra indole è sempre stata quella di guardare al meglio e cercare di realizzarlo. L’obiettivo diventò quindi costruire dei siti utili e trasparenti, incentrati sull’esperienza dell’utente.
Quando, invece, avete iniziato a dare attenzione non più solo all’usabilità, ma anche all’accessibilità di un sito?
In quegli anni, scrivendo codice compliance con lo standard di settore, iniziammo a dare attenzione a tutta una fetta di utenza che non vede, non sente e non percepisce come gli altri. Per cui iniziammo a chiederci se, per esempio, mettere un sottofondo musicale a un sito fosse così intelligente: in quel modo si escludeva infatti una grande parte della popolazione. O ancora, ci rendemmo conto che mettere un testo grigio su uno sfondo blu o un testo troppo piccolo comportava escludere tutti coloro che non vedono bene. Se quindi l’usabilità è quello che rende un sito usabile, fruibile, l’accessibilità è ciò che rende un sito inclusivo, accessibile a tutti, senza escludere nessuno.
L’occasione fu propizia quando sviluppammo il sito del Ministero dello Sviluppo Economico, aiutati dal fatto che, nel frattempo, era uscita la nuova versione delle Web Accessibility Guidelines - WCAG 2.0. Quando iniziammo il progetto non sapevamo nemmeno che in Italia ci fosse un Istituto superiore di comunicazione attivo anche sul web. Nonostante l’Istituto fosse rimasto un po’ ancorato ai vecchi media quali televisione e radio, l’approccio adottato era veramente inclusivo: tutto ciò che facevi doveva essere veramente visibile e fruibile da tutti quanti. Nacque così un bel confronto con i loro tecnici e ingegneri per capire, anche attraverso i nostri studi, come usare le tecniche di scrittura di codice, di grafica, di layout, di architettura dell’informazione, in maniera assolutamente proficua dal punto di vista dell’utente.
In che momento, dal parlare di programmazione, di front-end, HTML, CSS, Java Script ecc., si è passati a parlare a di UX?
Si è passati a parlare di UX quando ad un certo momento ci si è resi conto realmente dell’utilità e della necessità di avere una figura di raccordo: una persona che potesse mettere insieme le esigenze dei comunicatori, i bisogni estetici dei grafici e le velleità tecnologiche proprie dei programmatori di back end, che spesso fanno cose complicatissime, che alla fine se non vengono rese comprensibili dall’utente, questo non le usa e non servono.
Questa figura di raccordo diventò importante con l’evolversi del web in tutte le società. Oggi è impossibile veder nascere società di sviluppo con programmatori fullstack. La nostra società ce l’aveva sempre avuta questa figura. Ancora adesso, quando ci presentiamo ai clienti, io dico sempre ironicamente: «Se quello che c’è scritto è una cavolata, te la devi prendere con Ugo, se sul telefono di tuo figlio o di tua madre non si vede bene qualcosa, te la devi prendere con me, se invece quando clicchi non succede nulla te la devi prendere con Daniele e se, infine, il pulsante fa schifo a tutti, te la devi prendere con Lorenzo!».
Cosa pensi dei social network? Pensi che abbiamo inciso sull’esperienza utente?
Con i social network è cambiato tutto ulteriormente, perché hanno avuto il potere di mutare il costume e l’approccio: hanno portato l’utente verso il “cazzeggio”. Si è tornati un po’ a un internet fatto troppo di marketing, come in passato. Le direzioni che potevano essere prese erano tante: poteva essere presa la direzione dell’informazione democratica, della fruizione chiara e pulita, del mettere tutti quanti nelle stesse condizioni. E invece, secondo me, si è scelta la direzione del vendere a tutti i costi.
Oggi tutto è diventato più immediato, nessuno di noi supera la prima pagina dei risultati di ricerca: la se-conda quasi non esiste più. Inoltre, ci sono anche tante persone che cercano l’informazione sui social e non più su Google. Quello che all’inizio mi piaceva e che mi affascinava di internet è che la fruizione era attiva, non stavi ad aspettare un contenuto, come davanti alla televisione, ma te lo andavi a ricercare tu. Adesso si è passati un’altra volta alla fruizione passiva. Si aprono sempre i soliti siti per leggere sempre le solite cose.
Tornando al tuo percorso in kapusons, qual è il progetto a cui sei più legato?
Negli ultimi anni il progetto più bello è stato Memoria Paralimpica: al di là dell’aspetto puramente tecnico e operativo, cioè costruire il sito rendendolo usabile ed accessibile, ciò che mi ha più entusiasmato sono stati i contenuti di quel sito, il mondo che c’è dietro. Un altro progetto che ricordo con piacere è lo sviluppo del sito e del software fatto per PRO.DO.C.S, associazione culturale e ONG. Oltre a stimare profonda-mente la fondatrice, ho apprezzato i suoi due centri di documentazione, Aldea e Dosvi: Aldea significa piccolo vilaggio, Dosvi Donne e Sviluppo. Queste persone mi hanno aperto un mondo, perché non lavorano per il profitto, ma per fare del bene agli altri come se fosse una missione.
Il bello del mio lavoro è proprio la trasversalità, ho la possibilità di incontrare realtà diversissime tra loro. Per esempio, il lavoro che mi ha fatto invece più ridere è stato quello per Effelle Service: l’imprenditore, una persona incredibile, aveva una società in Campania che si occupava di derattizzazione e di catering. Di conseguenza il sito aveva uno schermo diviso a metà: servizi di sanificazione e derattizzazione da un lato, servizi di catering dall’altro: veramente strano, ma troppo divertente!
Quello che ami di più del tuo lavoro me lo hai già fatto capire chiaramente. Qual è la cosa, invece, che non sopporti?
La cosa che amo meno del mio lavoro è non poter mandare a fanculo tutti quelli che vorrei mandare a fanculo. Vedo un sacco di porcherie, stupidità e inutilità online, e questo mi dà molto fastidio.
Per esempio, se si guarda al mondo del web, non amo l’e-commerce, che è spesso portato avanti senza criterio spesso e che adesso, anche dopo il lockdown, sta impazzando sempre di più. Capisco la necessità del momento, ma tu vuoi mettere comprare online e invece scendere sotto casa, parlare con l’esperto che sta lì da anni, e prima di lui il padre e il nonno… Ecco questo ha dei risvolti terribili, perché adesso si vende di tutto, prodotti che durano poco, e non si dà più valore alle cose e a chi c’è dietro. Io, in passato, volevo occuparmi dei sistemi informativi, volevo cioè informare le persone sulle cose belle che esistono. Invece, mi sono reso conto che i sistemi informativi servono soltanto a fare marketing e a veicolare l’acquisto verso quello che non ci serve. Creare bisogni. Sempre perché si sfrutta il solito vincolo del consumatore, che io ho rifiutato all’università e che ora mi ritrovo dappertutto!
Un’altra cosa che non amo è che i colossi del web, coloro che all’inizio dovevano essere garanti di una democrazia, di un’orizzontalità, che dovevano assicurare il libero accesso all’informazione a tutti, sono stati i primi a fare gli interessi economici soltanto di una parte della popolazione.
Non apprezzo, infine, il modo in cui vengono venduti i dati profilati delle persone. Inizialmente credevo nella profilazione, la consideravo assolutamente utile. Quando non esistevano ancora delle profilazioni così esagerate e per molti versi diaboliche, io ero contento di dire quali erano i miei gusti e di poter ricevere pubblicità su ciò che mi interessava. Adesso si è arrivati all’esasperazione: se io cerco un frigorifero e me lo compro, a che mi serve mesi dopo la pubblicità di frigoriferi? Mi dà solo fastidio, perché può esserci la possibilità che io lo trovi ad un prezzo inferiore avendolo già comprato! Ma poco importa, perché sono un pessimo cliente: nelle mie ricerche spazio dalle biciclette, alle moto, al motocross, alle macchine, fino alla musica e agli strumenti musicale e a mille stranezze: i miei cookie impazziscono! La settimana scorsa sul sito di National Geographic, ad esempio, mi è comparsa la pubblicità «NEMO, IL SEDUCENTE SOTTOMARINO PERSONALE»: non sanno davvero più cosa propormi e come profilarmi!
Beh… un bel sottomarino secondo me completerebbe alla perfezione il tuo profilo eclettico.
Tornando seri, quali sono gli elementi che ritieni fondamentale per fare il tuo lavoro?
A chi volesse intraprendere un percorso simile dico che è fondamentale stimolare continuamente la propria curiosità, perché a diventare un pollo in batteria non ci vuole niente.
In secondo luogo, fondamentale è la capacità di studiare in autonomia qualsiasi cosa, perché se non sei capace di fare l’autodidatta, non ragionerai mai con la tua testa: questo me lo ha spiegato Daniele, che è uno dei migliori programmatori che ho mai incontrato e che si è diplomato in una scuola serale, da grande.
Un’altra cosa importante: non studiare mai a pagamento. Non serve. Fanno sembrare facile qualcosa che non lo è affatto. Per fare il nostro mestiere esistono tanti corsi online gratuiti, FreeCodeCamp per esem-pio, che rilasciano anche delle certificazioni; ci sono poi sono delle università americane, tra cui Cambridge, che mettono a disposizione tutte le lezioni di informatica su YouTube, fruibili gratuitamente. Non serve quindi pagare, quando lo fai ti stai scaricando di una responsabilità e questo ti porterà a non riuscire mai nel tuo intento.
Un’ultima cosa: bisogna ascoltare e fare musica. La stessa parte del cervello che si usa per programmare si usa per suonare, se non sai suonare non sai programmare, non hai le cose chiare, non riesci a scomporre i problemi complessi rendendoli semplici e quindi non potrai mai programmare. Poi bisogna leggere. Siamo bombardati da immagini che fanno sembrare tutto semplice: se non ti metti a leggere non riesci ad immaginare e se non riesci ad immaginare puoi soltanto riprodurre, non puoi fare niente di tuo.
Per concludere, vorrei che mi raccontassi il momento più divertente in kapusons, anche se immagino che ce ne siano a bizzeffe…
Ce ne sono davvero tanti, a partire dai tornei di badminton in ufficio tra me e Lorenzo, quando utilizzavamo Gustave come rete. Gustave era un ragazzo che venne a fare il programmatore da noi: l’unico che ebbe il coraggio di accettare. Quando aprimmo kapusons e capimmo che era il momento di prendere un primo collaboratore, infatti, eravamo in grado di offrire uno stipendio ridicolo, per cui mettemmo un annuncio a cui risposero soltanto due persone: una ragazza cinese che non parlava italiano - e parlava ben poco l’inglese - e Gustave, di origine sudafricana. Al colloquio sembravamo Aldo Giovanni e Giacomo du-rante Cyrano de Bergerac. La ragazza cinese l’indomani, dopo il colloquio, ci disse «Io penzato bene e penzato che no vuole venire da voi». E quindi rimase il temerario Gustave con cui stringemmo un rapporto di profonda amicizia, oltre che lavorativo.
Sì, molto interessante, ma non ho capito bene cosa intendi per “utilizzavamo Gustave come rete…”
Ora te lo spiego… Nella sede dell’epoca c’era un grosso open space, la scrivania di Gustave era proprio al centro, mentre tutte le altre erano intorno, lungo la parete. Ed ecco che io e Lorenzo capimmo che Gustave poteva essere una rete umana perfetta per le nostre partite di badminton, in cui ci lanciavamo il volano da una postazione all’altra.
Oltre allo straordinario ricordo di noi in mutande a casa di Ugo quando aprimmo l’Srl, mi fa molto ridere pensare anche a cosa accadde quando prendemmo il primo locale per la sede. Avevamo scelto, per forza di cose, quello che costava di meno: brutto, malandato e infestato da una puzza terribile di tofu, che proveniva da una fabbrichetta che stava accanto a noi. Ci lavorava un SARDO, una bravissima persona, si chiamava Marongiu. La caratteristica principale del locale era il muro divisorio completamente ammuffito.
Visto che i soldi scarseggiavano, facemmo gli operai di noi stessi e passammo l’estate del 2003 ad attaccare piastrelle, pavimenti ecc. Ma seppur giovani e con poche risorse, cercavamo di fare i furbi e dicemmo al vecchio proprietario che noi avremmo pensato all’acquisto dei materiali e lui alla manodopera: tutto questo per farci pagare in qualche modo. L’unica persona che ci avrebbe potuto aiutare in questa impresa, perché matto al punto giusto e sconosciuto al proprietario, era U KAPU (da cui kapusons, figli di kapu), il nostro coinquilino brasiliano Miguel, che travestimmo da muratore ma che, ovviamente, non capiva niente di muratura. Quando il proprietario gli chiese che problemi avesse il muro, Miguel, che nel frattempo avevamo sporcato per renderlo più credibile, incominciò a muovere le mani a caso sulla parete, cercando di dare l’impressione di essere un esperto, e descrivendo il problema come poteva: «Questa parte du muru… Questa parte du muru è piena di muffu, noi togliamo muffu e facciamo tutto bianco qui!». Strano a dirsi, ma il proprietario abboccò, o probabilmente rise così tanto che ce lo fece credere!
* Daniele Di Bella - meglio conosciuto come “Il Matto” - tra i fondatori di kapusons e CTO.
* Ugo Esposito - tra i fondatori di kapusons, CEO e Project Manager (quello che firma gli assegni, pe capisse).
* Lorenzo Pierfelice - se non sapete chi è, andatevi a leggere l’intervista precedente.